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Webseries, raccontare la sanità a puntate

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“Quello di cui mia figlia Francesca avrebbe bisogno è rivedersi nelle storie degli altri, per capire che non è sola e che qualcuno come lei ci prova ogni giorno” dice Gabriella, la mamma di una paziente affetta dalla malattia di Fabry. Riconoscersi guardando qualcuno come lei attraverso uno smartphone o qualsiasi dispositivo connesso. Fruire di codici narrativi che non ci abbandonano dall’infanzia: serve una storia e un personaggio con cui immedesimarsi, sono questi gli ingredienti per una webserie. Il successo della serialità, applicato alla capillarità del web, permette di produrre contenuti di successo per tutte le fasce di utenti, anche per quelli che più di altri hanno bisogno di immedesimarsi: i pazienti e i loro caregiver. Il vantaggio delle webseries in ambito sanitario? Senza ombra di dubbio la potenza delle loro storie.

 Webseries, la forza dell’immedesimazione

Puntata dopo puntata creiamo un patto con i personaggi della storia: ci arrabbiamo, tifiamo per loro, ci affezioniamo ma soprattutto finiamo per sentirci un po’ loro. L’immedesimazione è un fattore fondamentale. Nel mondo della salute questo effetto risulta amplificato dalla possibilità di coinvolgere nella serie i diretti destinatari: pazienti reali, come tutte le figure che gravitano loro attorno. Lo sanno bene gli operatori dell’Asl di Napoli 2 nord che hanno creato una webserie di 25 puntate per promuovere gli screening oncologici, ma soprattutto per ridurre la distanza tra medici e pazienti. I Capitani ha come protagonisti 25 medici, uno per puntata, che racconteranno che cosa significa lavorare in un ambiente particolare come quello ospedaliero, quali sono le sfide giornaliere e quanto queste impattano nella loro quotidianità di persone prima che di medici. Azzerare le distanze, umanizzare le figure che molto spesso vengono percepite come totalmente lontane dagli assistiti.

La possibilità di utilizzare la serialità permette infatti di prendere parte all’evoluzione dei personaggi, facilitandone l’immedesimazione.

Come spiega Luca Mastrantonio, saggista e docente di comunicazione e storytelling multimediale all’Università IULM di Milano nel suo saggio Emulazioni pericolose – L’influenza della finzione sulla vita reale, alla forza centrifuga degli intrecci a episodi si contrappone la forza centripeta dei personaggi che hanno una forte carica emotiva e sono in evoluzione, come nei romanzi di formazione. Questo crea un legame così stretto con lo spettatore, che spesso quest’ultimo si ispira alle storie che ha visto nelle series per le proprie scelte di vita. Punto critico nell’ambito della salute, che per questo richiede uno sforzo in più nella direzione artistica: lavorare su una storia reale e smussarne gli angoli ai fini di renderla più scorrevole. La finzione diventa solo un filtro per fruire della realtà.

Il viaggio dell’eroe, dalla diagnosi alla quotidianità

Ogni webserie mette in scena una storia ed ogni storia segue quello che nella comunicazione si chiama il viaggio dell’eroe: il protagonista è chiamato ad uscire dal proprio mondo ordinario per qualche accadimento e inizia ad affrontare delle prove da cui ne esce cambiato. Il viaggio del paziente lo riprende fedelmente: da una situazione iniziale di normalità si finisce tra i corridoi di un ospedale e da lì iniziano le prove da superare, le ricadute che minano il percorso e i mentori, come i caregiver e gli Specialisti, che lo accompagnano in questo susseguirsi di climax e stasi. Come tutte le storie, anche questa ha bisogno di un finale: il cambiamento del paziente ed una nuova consapevolezza.

Come si traduce questo in una webserie sanitaria? In un certo numero di puntate, ognuna focalizzata su certi aspetti, sulle riflessioni e sulle esperienze che informano, responsabilizzano ed educano lo spettatore. È questo l’esempio di #lenostrestorie: la campagna di sensibilizzazione sulle neuropatie disimmuni di CIDP Onlus- otto puntate, otto storie, otto viaggi da raccontare. Elisabetta e la sua piccola Emma sono le protagoniste del primo episodio. “Dopo l’irrompere improvviso di una malattia grave e sconosciuta, proprio durante le festività natalizie, Emma e la madre ritrovano una speranza di cura e la fiducia nel domani”. All’apparenza l’incipit di un perfetto romanzo, è in realtà il racconto di un momento che ha caratterizzato l’esistenza delle due protagoniste, portandole ad affrontare la vita come due vere eroine in un viaggio.

Il successo delle webseries viene guardato con favore anche dall’Industria: può diventare uno strumento utile per fare educazione sulla patologia o su aspetti ad essa correlati. Se per esempio una patologia richiedesse una forte attenzione ad aspetti legati al controllo della dieta, perché non creare una webserie in cui due protagonisti cucinano piatti semplici e raccontano quanto possa essere difficile ma al contempo utile rispettare certe regole alimentari? È il caso di una webserie spagnola pensata per pazienti con malattia renale cronica.

La chiave dello storytelling: la diffusione della rete

Come suggerisce il termine, il canale per la fruizione di queste stories è il web. Le istanze formali della serialità televisiva si convertono a metodi di fruizione tipici della rete: la webserie diventa più diffusa e democratica. Questo tipo di prodotto può diventare uno strumento dell’Associazione pazienti da utilizzare sui propri canali, può essere condivisa sui social e soprattutto è accessibile sempre e in qualsiasi luogo poiché richiede solo una connessione.

#huntingtonstories, per esempio, è una webserie realizzata grazie alla collaborazione di familiari, malati e volontari di Huntington Onlus. Ogni puntata ha un protagonista diverso che racconta la patologia e la vita dopo la diagnosi. La pubblicazione su YouTube ha permesso all’Associazione di ricondividere gli episodi sulla propria pagina Facebook e sul sito, punti di riferimento fondamentali per familiari, caregivers e pazienti alla ricerca di testimonianze.

Il nodo della privacy

Raccontare la propria storia, la patologia e le difficoltà di ogni giorno richiede molto coraggio e tante tutele, soprattutto se il mezzo con cui si sceglie di diffonderle è la rete. In molti casi, infatti, lo storytelling in ambito sanitario si realizza mantenendo l’anonimato dei protagonisti, scegliendo nomi di finzione o omettendo il cognome dei protagonisti della storia. Si può decidere di ricorrere all’uso di attori che, proprio come in altri contesti, studiano i loro personaggi utilizzando un copione che è frutto di attività di user experience sulla comunità di pazienti di interesse.

Esistono molti modi per creare un prodotto di storytelling che racconta di tematiche delicate, intime e personali rispettando la privacy di chi decide di aprirsi e raccontare una parte così importante della propria vita.  In questo modo il prodotto diventa un messaggio capace di veicolare informazioni e valori.

 

Gli influencer sempre più health

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Nano, Health, Micro. La figura dell’influencer si sta  diversificando e connotando sempre di più. Anche nel settore sanitario stanno cominciando a emergere questi catalizzatori di attenzione un tempo sfruttati soprattutto nei settori B2C

Esplorare le possibilità legate alla costruzione di campagne di comunicazione sfruttando la figura degli influencer è un passo importante anche per il settore healthcare.

Secondo quanto riportato da un sondaggio del 2018, infatti, il 78% delle aziende si rivolge a questa figura per completare la propria strategia di comunicazione.

E se l’obiettivo non fosse vendere una borsa griffata, ma sensibilizzare su tematiche legate all’importanza dell’aderenza terapeutica o di un’alimentazione sana? Le nuove figure di professionisti che sul web sfruttano i social network per divulgare informazione a un pubblico sempre più ampio stanno aumentando.

Grazie al contributo di Biagio Oppi, delegato Emilia-Romagna per Ferpi e professore di Comunicazione d’Impresa all’Università di Bologna, cercheremo di scoprire in che modo questi “catalizzatori di attenzione” e influenzatori di pubblici sempre più specifici possono essere utilizzati per aumentare l’awareness del paziente e per incitarlo a condurre stili di vita corretti.

Da anni ormai si sente parlare della figura dell’influencer nelle campagne di comunicazione. A chi ci si riferisce, che caratteristiche dovrebbe rispettare?

Le Relazioni Pubbliche hanno teorizzato lungo tutto il corso del ‘900 il concetto di influenzatore che peraltro esisteva da sempre nelle comunità: nei manuali di relazioni Pubbliche abbiamo studiato come raggiungere gli influenzatori (definiti solitamente opinion leader) che poi avrebbero influenzato (teoria “Two Step Flow of Communication”) le masse o le nicchie di pubblici di nostro interesse. Con la rete e in particolare con i social network, le cose sono cambiate perché i pubblici interagiscono direttamente con gli stessi influencer che quindi hanno una relazione non solo top-down, ma anche di continuo interscambio. Coloro che oggi riescono per autorevolezza e carisma ad emergere e mantenere un ruolo di influenza, sono ancora più rilevanti per le campagne di comunicazione.

I nano influencer, definiti la ‘nuova professione del 2019’, sono diventate le principali figure al centro delle ricerche aziendale per le campagne marketing. Chi sono? Quale è la ragione per cui il marketing ha rivolto il suo interesse verso queste figure?

Il nano influencer è colui che ha un preciso ambito di influenza in una nicchia ben identificabile; probabilmente spesso non è nemmeno conosciuto al di fuori della comunità di interesse di cui è influencer. È molto rilevante (ed interessante quindi per marketing e relazioni pubbliche) perché la sua credibilità è molto elevata e non è basata sulla quantità (banalmente il numero di follower e di interazione con gli stessi) ma sulla qualità (intensità della relazione, livello dei contenuti).

Una curiosità… la prima grande campagna documentata con nano-influencer probabilmente è quella che riguardò i four-minutes men di cui il CPI (il Committee on Public Information) del Governo USA si servì per sostenere le scelte governative a favore della Prima Guerra Mondiale. Si calcola che per convincere gli americani a entrare in guerrra furono coinvolti oltre 75.000 four-minute men, addestrati ad essere estremamente stringati ed essenziali nel fare il loro discorso pro-intervento in cinema, teatri, luoghi pubblici: alcuni calcolano circa 7 milioni e mezzo di “mini-discorsi” che avrebbero coinvolto oltre centinaia di milioni di persone.

Quale è il profilo tipico dell’health influencer?

Un superesperto in grado di parlare con regolarità e competenza di temi sanitari e salute, con una community di follower di nostro interesse. Occorre fare un discorso molto differenziato da Paese a Paese. Ricordo che quando lavorai in Spagna, dal 2015 al 2016, le agenzie di comunicazione e relazioni pubbliche erano in grado di indicarmi almeno una ventina di health influencer molto rilevanti: tanto per capirci persone con pubblici superiori all’audience dei media di settore. In Italia solo da pochissimo si sono affermati alcuni health influencer e pochi sono in grado di raggiungere larghe audience.

Quali sono i principali influencer in questo ambito?

Roberto Burioni in primis, poi Salvo di Grazia (@MedBunker), ma per me sono importanti influencer anche Walter Ricciardi e Mario Melazzini. Tuttavia nell’ambito della salute, conviene davvero identificare le comunità di nostro interesse e quindi ad esempio mi focalizzerei molto sulle associazioni di pazienti e sui profili social che riescono a coagulare attorno a sé gruppi rilevanti di stakeholder nella patologia o sul tema di interesse. È all’interno dei gruppi di pazienti su Facebook che si creano dinamiche di informazione-influenza su temi di salute rilevantissimi; su Instagram oggi viene veicolata un importantissimo numero di informazioni sulla nutrizione – non sempre purtroppo in maniera corretta e responsabile.

Come le aziende farmaceutiche, i caregiver, i fornitori dei servizi per il paziente e i diversi attori del mondo sanitario possono impostare una campagna di comunicazione sfruttando la figura degli influencer?

Per fortuna ci troviamo in un settore fortemente regolato e, almeno in Italia e in Europa, è vietata una comunicazione incontrollata diretta ai pazienti. Gli influencer in sanità devono essere utilizzati per sensibilizzare a stili di vita corretti, per fare awareness sulle patologie e sui sintomi, per migliorare la comprensione di temi generali di interesse come possono essere i vaccini o l’utilizzo degli antibiotici, per dare visibilità a progetti e iniziative di advocacy. La comunicazione rivolta al paziente spetta però alla classe medica nei contesti adeguati. Come aziende dobbiamo impegnarci a restituire autorevolezza e credibilità a scienza e medicina, anche sensibilizzando il pubblico ad un utilizzo consapevole dell’informazione in sanità. In questo senso le aziende, ma anche le associazioni di professionisti della comunicazione, come Ferpi, possono svolgere un ruolo importante.