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La relazione terapeutica ai tempi del Coronavirus: la storia di Alfonsina

Dal 9 marzo le nostre vite sono state stravolte, le nostre certezze minacciate. Un grosso tumulto emotivo ci ha travolti, quasi come se stessimo osservando la nostra vita da una finestra, come se non ci appartenesse… non può essere! Non è possibile!  Il Covid 19 ha stravolto i nostri ritmi biologici e psicologici, le nostre relazioni, si è impadronito della nostra libertà.

Dopotutto, fino all’inizio della pandemia, la città di Wuhan non era altro che una parte di mondo sconosciuta, lontana da noi sia fisicamente che emotivamente.  Si è fatto spazio dentro di noi la consapevolezza che tutto è cambiato in modo dirompente, e dopo un primo momento di incredulità e distacco dalla realtà, la rabbia la paura e lo sgomento hanno scandito il ritmo giornaliero del nostro mondo interiore. Sono cadute le certezze, dando spazio all’amara consapevolezza dell’assenza dell’altro, dei rapporti sociali, di una quotidianità data per scontata ed ora tanto desiderata.

Il nostro lavoro come psicoterapeuti è stato “aggredito” nel suo aspetto fondamentale, il generatore di cambiamento attraverso la certezza dell’esserci… la relazione.

La relazione è fatta dell’incontro nel setting, di dialoghi, d’incroci di sguardi, di vissuti espressi con il linguaggio del corpo, attraverso quei sospiri impercettibili che solo la condivisione dello spazio “terapeuta paziente” mette in comunione e fa cominicare fra loro.

Anche noi psicoterapeuti siamo stati chiamati ad un cambiamento, cambiamento necessario a trasmettere ai nostri pazienti il nostro esserci nelle loro vite. In questa emergenza abbiamo fatto ricorso alla strutturazione di un setting “diverso”, nato nei byte, fatto di clic e di videochiamate. Ci siamo adattati creativamente al nuovo. Nonostante le difficoltà, le sofferrenze, abbiamo colto e rimandato ai nostri pazienti due cose importanti: vivere con la consapevolezza che il Covid 19 è fra di noi, ma nello stesso tempo mantenere viva e pulsante la speranza che genera energia e voglia di far fronte al dolore e alle sofferenze. Il nostro ruolo in questo tempo è stato di accoglienza, condivisione e presenza.

Una paziente, infermiera, ha trovato nei nostri incontri l’unico spazio dove poter dare voce alle sue angosce, alla sue paure. L’ambiente di lavoro si è trasformato in un bacino di emozioni forti, intense e devastati: paragonava l’entrare in reparto come il varcare la trincea in guerra, con un compagno di viaggio costantemente presente, lo spettro della paura della morte. Il solo pensare di poter essere contagiata dal virus la devasta, ed ancor di più la terrorizza l’idea della possibilità che essa stessa possa veicolare il virus della morte ai suoi cari, non riuscirebbe a sopravvivere al senso di colpa.

Il suo ruolo gli impone di dare coraggio, stabilità, mantenere alto il livello di guardia, ma nello stesso tempo trasmettere la speranza che “andrà tutto bene”.

Il supporto emotivo ai tempi del Coronavirus: la storia di Francesca

Covid-19. Emergenza sanitaria. Lockdown.
Sono parole che risuonano nelle nostre case ormai da alcuni mesi e con loro ne sono arrivate altre: paura, dolore, incertezza. Della malattia, della perdita, del futuro.

Ognuno ha il proprio modo di vivere ed esprimere questo momento attraverso emozioni complesse e spesso difficili da gestire e, nel confronto con i miei pazienti e i miei colleghi, ho capito che la parola d’ordine come psicoterapeuti non poteva che essere una: flessibilità.

Flessibilità nel gestire il processo clinico e nell’apertura a nuove forme e mezzi di comunicazione.

Come con Giorgia*, madre single di un giovane con una patologia cronica, che si è rivolta al supporto psicologico per la prima volta perché sopraffatta dall’ansia di essere sola e di dover proteggere il figlio da questo nuovo virus.

Con Giorgia abbiamo iniziato un breve sostegno tramite videochiamata grazie alle quali abbiamo potuto fare anche alcuni esercizi per imparare a gestire i momenti più difficili.

La videochiamata non è un mezzo del tutto nuovo nel supporto psicologico e, in casi come questo, dove il manifestarsi violento e improvviso del disagio è reso più acuto dal confinamento all’interno delle mura domestiche, risulta particolarmente efficace come porta verso l’esterno e come realizzazione della presenza di una rete di supporto su cui contare.

Antonio*, invece, caregiver di professione, teme di portare il virus a casa dai suoi cari e ai suoi pazienti. L’idea di questo rischio in poco tempo è passata da semplice timore passeggero a una vera e propria paura che gli rende complesso svolgere il suo lavoro con la necessaria calma e serenità.

Per lui e per tutti i suoi colleghi, impegnati in prima linea, è stato aperto immediatamente uno sportello di ascolto, per garantire un luogo sicuro e protetto in cui poter condividere queste emozioni.

In questo momento il primo obiettivo che ci poniamo come psicoterapeuti è soprattutto quello di permettere alle persone che necessitano di supporto di prendere coscienza della natura dell’emergenza e di riconoscere che si tratta di una straordinaria esperienza collettiva in cui siamo tutti coinvolti senza eccezioni.

È fondamentale quindi comprendere che non siamo soli nella paura, nel dolore e nell’incertezza e che esiste una rete di supporto capace di aiutare a comprendere e abbracciare le nuove emozioni e andare oltre grazie alle proprie risorse personali.
Per fare questo, in un momento in cui le relazioni e la comunicazione tra le persone sono profondamente intaccate dalle misure di contenimento, la flessibilità nell’approccio è la chiave per offrire il miglior supporto possibile.

* (nomi di fantasia)

 

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Alessandro

Nonostante l’infermiere domiciliare non sia in prima linea (tra i reparti di malattie infettive e  terapie intensive) nella “lotta al covid”, si trova di fronte a una grande battaglia da combattere: gli spetta il compito di continuare ad assistere sul territorio pazienti ad alta complessità assistenziale – che in questo momento più che mai, mostrano, in aggiunta alle difficoltà gestionali e alla cronicità della situazione di base, la paura di poter contrarre il virus.

Un virus che, potrebbe determinare esiti infausti per la salute di questi pazienti che si trovano in una condizione di base già precaria.

In questo momento i contatti all’interno di situazioni ospedaliere o ambulatoriali sono fortemente limitati e sconsigliati, di conseguenza l’infermiere domiciliare diventa ancora di più il punto di riferimento per coloro ai quali è garantita questo tipo di assistenza.

L’infermiere domiciliare si occupa perciò, oltre che dell’assistenza infermieristica di base, di supportare psicologicamente pazienti e familiari e di promuovere un’azione informativa e formativa, che miri alla sensibilizzazione delle pratiche alle quali attenersi perla prevenzione ed il controllo dell’infezione da Covid-19.

Tra i vari aspetti trattati nell’azione informativa, di fondamentale importanza risulta la parte relativa l’utilizzo dei DPI (dispositivi di protezione individuale) quali mascherine chirurgiche, che devono necessariamente essere utilizzate dal personale infermieristico che si reca a domicilio, ma anche dal paziente e dai caregivers; al fine da promuovere un’azione di protezione bidirezionale.

Spesso l’infermiere domiciliare si trova a fronteggiare situazioni in cui i propri utenti sono spaventati e hanno paura che chi eroga l’assistenza a domicilio possa essere vettore per la trasmissione del virus, essendo lo stesso a contatto con numerosi pazienti e rispettive famiglie.

Anche in queste situazioni, per quanto spiacevoli, il ruolo dell’infermiere è quello di tranquillizzare il paziente con professionalità e illustrare le misure di prevenzione che vengono attuate con e per ogni paziente; al fine di evitare la possibilità che i pazienti o i loro familiari rifiutino l’assistenza, con importanti ripercussioni sullo stato di salute del singolo e su tutto il sistema sanitario.

Questa emergenza sanitaria sta determinando una forte prova per la sanità pubblica e per chi ha scelto di prestarvi servizio.

Le azioni svolte da tutto il personale medico e infermieristico arricchiranno il bagaglio esperienziale di ciascun professionista, che continuerà a metterlo in campo anche quando l’emergenza sarà finita.

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Davide

Essere un infermiere domiciliare non significa unicamente assistere una persona in un ambiente esterno a quello ospedaliero: è importante non dimenticare il significato di entrare per necessità nel mondo di qualcuno, nella sua vita, nei suoi spazi, essere parte di un universo a noi sconosciuto, quello di coloro che devono accoglierci nelle loro abitazioni per ricevere assistenza.

Proprio questa situazione fa sì che ogni passo, ogni parola, ogni azione, debba essere compiuta portando il rispetto necessario a coloro che hanno aperto con fiducia la porta della propria vita a noi estranei, poiché questo siamo inizialmente, divenendo visita dopo visita parte integrante delle vite che assistiamo.

Da quando si è sviluppata la pandemia, causata dal Sars-Cov2, il concetto stesso di assistenza domiciliare è mutato, soprattutto a livello psicologico: per motivi di sicurezza i dpi sono divenuti fondamentali anche per quanto riguarda l’assistito e spetta a noi infermieri far rispettare il protocollo previsto.

Ammetto di non essere a mio agio quando, in casa altrui, chiedo di indossare la mascherina anche a coloro che in quella casa ci vivono, quando chiedo di aprire le finestre per arieggiare l’ambiente e allontano tutti coloro che non sono necessari dalle stanze che ogni giorno li vedono protagonisti, mentre io sono solo una comparsa. Lo faccio per il loro bene e per il mio, a volte non è facile ma risulta palese come l’obiettivo sia la messa in sicurezza di tutti.

In conclusione, voglio ribadire come il concetto di assistenza domiciliare sia delicato, basato su una bilancia i cui piatti necessitano dello stesso peso: il rispetto tra colui che riceve assistenza e la figura professionale che rappresentiamo.

Noi infermieri domiciliari siamo un riferimento, siamo le persone in cui l’assistito e i suoi familiari ripongono la propria fiducia nel seguire le indicazioni che diventano indispensabili per tutta la durata dell’accesso domiciliare.

Non dobbiamo sottovalutare il ruolo che ricopriamo e l’importanza che rivestiamo in quanto sanitari, ma neppure il fatto che entriamo come esterni nelle intimità delle vite degli altri.

Umiltà e competenza, mai come in questo periodo risultano indispensabili.

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Roberta

“Il tempo di relazione è tempo di cura”

Articolo 4 del Codice deontologico delle professioni infermieristiche.

Vorrei partire da qui per riflettere su che cosa significhi essere un infermiere ai tempi del Coronavirus perché credo fortemente che se da un lato questa pandemia ci chiede di ridimensionare gli spazi che abbiamo a disposizione con i nostri pazienti, dall’altro ci vede costretti ad offrire loro non solo cura e assistenza ma anche un forte supporto emotivo e delle rassicurazioni in un momento storico in cui tutti ci sentiamo un po’ figli dell’incertezza e della paura, spesso anche fragili e impotenti.

Mi chiamo Roberta, sono un’infermiera e se penso a che cosa significhi per me occuparmi di pazienti al domicilio in un momento come questo, mi viene da dire che significa tanto. Significa emozioni, paure, sguardi e distanza.

Quando entro a casa dei miei pazienti è inevitabile percepire la paura negli occhi di chi mi sta di fronte.

Loro sono molto attenti e scrupolosi nei miei confronti, mi osservano… e tra un cambio di guanti e l’altro, uno sguardo quasi nascosto perché la mascherina stringe e le guance salgono… loro sono lì e io sono lì per loro. Ci devo essere.

Cambiano tante cose in tempi come questi, cambia l’approccio, cambia la postura, cambia la distanza, cambia l’accoglienza, cambia la relazione, cambia la dimensione, cambiano i saluti.

Andare a domicilio dai pazienti vuol dire instaurare con loro un rapporto rispettoso e forte, di fiducia. Si creano delle sinergie che hanno un significato importante nella relazione. Con i miei pazienti ho instaurato un forte legame, insomma passo più tempo con loro che con la mia famiglia e loro fanno parte della mia quotidianità.

Se pensiamo che il tempo di relazione è tempo di cura, dobbiamo considerare che i pazienti in questo momento necessitano ancor di più di rassicurazioni e conforto ed è legittimo che questo compito venga in qualche modo richiesto a noi: i tuoi assistiti li conosci bene; riconosci le loro espressioni, le loro smorfie, le parole troncate e le giornate tristi, i giorni spensierati e le risate condivise davanti ad un buon caffè.

Percorro molti chilometri e spesso nei miei viaggi rifletto su quanto sia importate esserci per gli altri, le strade sono vuote, i rumori assordanti non li sento più. Vedo distese di prati e montagne innevate. Cieli limpidi e alberi in fiore. È da qui che mi ricarico di energie e riparto per dirigermi da un altro paziente.

Dobbiamo imparare a vedere la relazione con i nostri pazienti come un qualcosa che in qualche modo cura anche noi, che ci aiuta a rivedere la dimensione relazionale con l’altro anche e soprattutto in termini di distanza perché ad oggi non stringo la mano a nessuno, non abbraccio nessuno per consolazione e questo significa distacco.

Quello di cui sono certa è che quando questa pandemia sarà finita potrò finalmente tornare a vivere i miei pazienti come li vivevo prima, senza panico, senza paure. Tornerò a vivere i miei pazienti nella serenità del rapporto che con loro ho creato, sicura e fiduciosa del fatto che lo stesso sarà per loro.

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Orazio

Stiamo vivendo un’emergenza sanitaria senza precedenti, ma non ci stiamo forse dimenticando di chi ogni giorno vive la cronicità della propria malattia? Sono proprio quelle persone che, adesso che il sistema sanitario nazionale si è impallato, sono rimaste da sole a gestire il loro quotidiano.

È proprio per questi malati che noi infermieri domiciliari possiamo fare la differenza. Anche oggi ci siamo, ci siamo sempre, non solo adesso che ci hanno incollato addosso l’etichetta di eroi, ci siamo anche a Natale o a Ferragosto, con il sole o con la neve, con e senza il Coronavirus!

Siamo un punto di riferimento, una sicurezza, una certezza per i nostri assistiti in una condizione che di certo ha ben poco. Sono un infermiere che da sempre si occupa di malattie rare, quelle che quasi nessuno conosce e che in questo periodo non sono all’attenzione dei media. Proprio per i malati rari sento di dover continuare a esserci.

Svolgo quest’attività da più di dieci anni ed è bello vedere che in questo periodo i pazienti mi chiamano ogni giorno, mi aggiornano sulle loro condizioni di salute e mi chiedono le mie, cercando chiarimenti, sicurezze. Sono felici che qualcuno si continui ad occupare di loro.

Quando mi reco al loro domicilio mi fanno trovare la stanza arieggiata e pulita e indossano la mascherina. Anche loro si prendono cura di me. Questo è meraviglioso.

Proprio ieri una paziente che non seguo più da un anno perché non copro più la sua zona di residenza, mi ha chiamato per sapere se stavo bene raccomandandomi di stare attento.

Credo di fare uno dei più bei lavori al mondo.

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Alessio

Da diverso tempo collaboro con HNP come infermiere domiciliare dedicandomi ad attività rivolte ai pazienti affetti da malattie croniche e rare.

Per un infermiere il lavoro in assistenza domiciliare è diverso dal lavoro in ospedale perché con il tempo entri a far parte della famiglia dell’assistito: non sei visto come semplice infermiere professionale, ma anche come un amico, un confidente e un punto di riferimento in ambito infermieristico per tutto il mondo che si trova dietro quel campanello che suoni anche tutte le settimane.

In questo momento così strano che stiamo vivendo per il Coronavirus, il nostro contributo di infermieri è essenziale per garantire la continuità assistenziale a domicilio per questo tipo di pazienti che presentano patologie che già di per sé li rendono più fragili di altri. Il mio lavoro infatti continua a svolgersi come sempre, ma con maggior attenzione, rispettando i protocolli di sicurezza che ci sono stati comunicati.

Che cosa è cambiato nelle mie attività? Beh, alcuni pazienti per il rapporto di fiducia che si è creato nel corso degli anni si sentono al sicuro a effettuare la terapia infusionale, proprio come si sentivano prima del virus; altri pazienti maggiormente ansiosi, pazienti che si trovano a casa dal lavoro con tutte le implicazioni che questo comporta, hanno avuto di bisogno di maggiori rassicurazioni sulla mia modalità di somministrazione della terapia, ma ancor più sui miei contatti precedentemente avuti data la mia professione, facendomi sentire una minaccia. Io non mollo, non ho esitato un secondo a spiegare loro che sono sempre Alessio, con una maschera in più e tante accortezze che servono proprio per preservare tutti i miei assistiti.

Il mio lavoro è come una missione, ed è in questo momento delicato che si deve continuare a lottare con tutte le nostre forze per il bene della collettività, lavorando con le giuste precauzioni, senza mai abbassare la guardia.

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Gaia

Coronavirus, una parola che in questi giorni rimbomba 24h su 24h nelle nostre teste.

Un virus sconosciuto che in silenzio è entrato delle nostre vite, togliendoci la libertà di vivere la nostra quotidianità e mettendoci tante limitazioni, ma forse facendoci apprezzare i piccoli gesti quotidiani che tanto spesso diamo per scontati: un bacio, un abbraccio, una stretta di mano. Atti normali che oggi sono vietati perché la parola d’ordine è distanza.

Oggi più che mai, in questo blocco del nostro Paese, si sente un’aria completamente diversa e un silenzio surreale. Abituata a svolgere il mio lavoro come infermiera domiciliare e a spostarmi con la mia macchina in una metropoli caotica ed assordante come Roma, mi sono accorta che i rumori si sono fatti ovattati.

Gestire un lavoro delicato come il nostro a contatto così ravvicinato con i pazienti, non è semplice: molti di loro li conosciamo da anni, ma in questi giorni è facile percepire un velo di “paura” quando varchiamo la porta delle loro abitazioni. L’impatto psicologico è molto forte, non vediamo la fine di questa pandemia e come infermieri ci troviamo a dare tante rassicurazioni a pazienti timorosi con patologie complesse che oggi più che mai si sentono più fragili.

Entrando nelle loro case diventiamo dei punti di riferimento e sappiamo il peso che le nostre parole hanno per loro. Empatia e rassicurazione sono fondamentali soprattutto in questo periodo.

Sappiamo che essere infermiere è un lavoro complesso, perché oltre alle abilità tecniche prevede tutta una serie di componenti umane e psicologiche che ogni giorno mettiamo in atto. Noi siamo il nostro lavoro, perché la malattia e il dolore delle persone che incontriamo ce li portiamo sempre dietro, nel nostro zainetto di pensieri anche quando la giornata di lavoro si è conclusa.

Fare l’infermiere, in modo particolare nei programmi domiciliari, ci permette di costruire dei rapporti profondi con i pazienti e ricevere la loro fiducia stimola moltissimo il nostro operato. In questi giorni più che mai, poter ricevere la terapia nel comfort della propria casa è percepito fortemente come un valore: più di un paziente mi ha confermato che avrebbe saltato la terapia se si fosse dovuto recare in ospedale vista la situazione, interrompendo così la continuità terapeutica.

“Andrà tutto bene” è quello che l’Italia ripete a sé stessa come una sorta di mantra per scacciare via i pensieri negativi e io lo voglio ripetere a tutti i colleghi che stanno lavorando negli ospedali e nelle case, a contatto con questo nemico, dimostrando la forza e l’importanza del nostro lavoro.

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Sarah

Sono giorni complicati, come infermiera continuo a lavorare. Non sono un’infermiera di reparto, il mio è un lavoro diverso: seguo pazienti cronici con malattie rare al loro domicilio, lo faccio ormai da anni.

Sono anni che frequento le case dei miei pazienti e sono diventata un piccolo pezzo della loro famiglia; proprio in giorni come questi si appoggiano più che mai a noi infermieri domiciliari.

Hanno bisogno di essere rassicurati e protetti, soprattutto protetti.

Ultimamente mi vedono cambiare tantissime volte i guanti, nascondere parte del mio viso dietro una mascherina, indossare gli occhiali; sembra un po’ un remake della canzone di Vianello ai tempi della pandemia. Quando entro a casa delle persone, spiego loro che tutte questi dispositivi sono per proteggerle e non per creare distanze, conosco tutte le loro problematiche che sono nate negli anni, quelle che in questo momento le rendono ancora più fragili. Loro si fidano di me, della mia professionalità, apprezzano il fatto che continui ad aiutarli.

Il mio lavoro non è solo questo, non mi interfaccio solo con pazienti a cui devo somministrare una terapia: ci sono anche quelli che monitoro periodicamente, sempre a domicilio.

Con loro è diverso: devo spiegare che per un po’ non ci vedremo, ma che ci sentiremo, che sono sempre a loro disposizione, ma dietro a un telefono; la mia professionalità è ancora a loro disposizione, ma a distanza, per proteggerli. A volte in queste chiamate parliamo di quello che sta succedendo e io cerco sempre di rasserenarli. Non è facile perché spesso non sono serena neanche io, ma sono un’infermiera e come è scritto nei primi articoli del nostro codice deontologico:

L’ infermiere si pone come agente attivo nel contesto sociale a cui appartiene e in cui esercita, promuovendo la cultura del prendersi cura e della sicurezza.

L’ infermiere orienta il suo agire al bene della persona, della famiglia e della collettività“.

E adesso, più che mai, un infermiere può essere un aiuto importante.

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Anisoara

Di questi tempi credo che sia importante darsi molto da fare più che perdersi in chiacchiere, ma credo anche che raccontare quello che succede sia importante per chi come me ha a che fare con i pazienti, perché può essere un conforto in un momento così particolare.

Mi chiamo Anna, sono un’infermiera che si dedica all’assistenza delle persone affette da malattie complesse a domicilio.

Voglio condividere il mio vissuto in questo periodo molto delicato in cui il nostro lavoro di infermieri ci porta, oggi più che mai, a dare ai pazienti non solo l’assistenza specifica, ma anche un importante supporto in termini di rassicurazioni, informazioni, conferme, codici di comportamento per approcciarsi in famiglia e nella collettività.

Nel momento in cui varco la porta di casa dei miei pazienti vedo tante volte persone con il sorriso sulle labbra, contente di vedermi, persone che aspettano da me molte informazioni. Sono tante le domande a cui devo rispondere: come comportarsi, se certi atteggiamenti sono giusti o sbagliati. Noto anche una maggiore attenzione dei miei assistiti a tutte le manovre che metto in atto per l’infusione domiciliare e rispondo con interesse alle domande che mi fanno in merito.

Mi capita anche di vedere persone timorose al mio ingresso in casa loro, parlano con gli occhi, capisco che si stanno chiedendo: “siamo al sicuro se, tu che per lavoro ti muovi tanto, entri a casa nostra?”. Cosa posso fare per rassicurarli? Spiegare e mostrare loro qual è il modo in cui si svolgerà il mio intervento (la distanza sociale di almeno un metro, l’uso della mascherina, i ripetuti cambi di guanti in ogni fase dell’attività)

Personalmente credo che l’attività di più importante valore in questi tempi colmi di incertezze e preoccupazioni, sia il supporto psicologico: le persone si aspettano da noi che entriamo nelle loro case, rassicurazioni e conferme. Le persone ci aspettano nelle loro case per affidarsi a noi, per sentirsi protette; siamo anche la loro “valvola di sfogo” perché tante volte liberarsi delle preoccupazioni e avere risposte è tanto importante quanto la terapia. Avere a casa un operatore sanitario con cui confrontarsi tranquillizza e conforta, aiuta a “ricaricare le batterie” per continuare ad affrontare un periodo critico che si aggiunge a una condizione già fragile di per sé, quella di malato raro.

Ho trovato conforto quando, uscendo dalla casa di uno dei miei pazienti, mi sono sentita dire “ti aspettiamo la prossima volta!”.  Questo per me è importante, significa che sono riuscita a trasmettere a lui e alla sua famiglia quello che mi pongo come obiettivo sempre: fiducia, che penso sia la base del rapporto infermiere paziente.

In questo particolare periodo credo sia fondamentale il nostro operato: siamo quelli che curano “anima e corpo”, la nostra missione è di fondamentale importanza. Quindi, rivolgendomi ai miei colleghi, auguro a tutti: Buon lavoro!