Intervista a Maria Cristina Lavazza, experience designer

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Si sente sempre più spesso parlare di User experience, ci puoi spiegare esattamente cosa si intende con questo termine?

È il modo in cui ognuno di noi reagisce alle sollecitazioni esterne, qualsiasi esse siano.

In realtà definire esattamente cosa significa esperienza è davvero complesso. Un tempo l’esperienza consisteva nel vivere o fare interazioni molto semplici: se le nostre nonne stavano male andavano dal medico che gli dava un farmaco direttamente dal suo studio, se volevano un abito nuovo andavano dalla sarta, o nella merceria di zona, per scegliere stoffa e modello.

L’interazione era facile, diretta, lineare: ad un bisogno corrispondeva un’azione unica e una risposta più o meno scontata.

Oggi i nostri bisogni si sono moltiplicati di pari passo con la complessità dell’offerta: possiamo scegliere. Possiamo scegliere dove e come fare le cose, ma soprattutto quali elementi combinare per vivere a pieno la nostra esperienza. Perché l’altro elemento chiave con il quale misurarsi nella progettazione di esperienze complesse è l’impossibilità di standardizzarle. Le esperienze sono personali e ognuno le vive in maniera unica.

Dunque la mia personale esperienza di acquisto online e di assistenza può essere molto positiva, per un altro quel piccolo ritardo nella risposta può trasformare la sua esperienza in un’inefficienza da urlare sui social. Sì, perché le esperienze negative hanno il potere di attaccarsi alla nostra memoria in maniera indelebile. E questo vale per qualsiasi esperienza: dall’acquisto, alla cura, al tempo libero, alla mobilità. In altre parole siamo tutti immersi in migliaia di esperienze con realtà esterne (personali, sociale, pubbliche, private) di cui non ne percepiamo l’influenza.

 

User experience e programmi di supporto per il paziente, come si possono combinare?

Dominare un’offerta così sfaccettata è davvero difficile, se poi si toccano temi sensibili come la salute e le emozioni delle persone progettare esperienze positive diventa funambolico. Anche per questo la parola “esperienza” va declinata: in ambito clinico e farmaceutico dobbiamo parlare di “Patient experience” che comporta l’analisi e la valutazione di elementi in più rispetto alla più tradizionale user experience. L’approccio di esplorazione dell’esperienza del paziente sta cambiando moltissimo anche per questo dovremmo parlare di patient centered design, ovvero della progettazione che mette realmente al centro il paziente. Fino ad oggi la ricerca del Pharma si è concentrata sulla relazione tra paziente e farmaco ascoltando primariamente clinici o centri specializzati. Ma il paziente non è la sua malattia e la sua esperienza è il prodotto del suo essere tante cose, ovvero dell’essere “persona”.

I programmi a supporto dei pazienti fanno proprio questo, integrano l’esperienza di cura permettendo alle persone di vivere meglio il periodo, più o meno lungo, del trattamento. Il farmaco diventa parte di un puzzle più ampio.

Nell’ultimo anno abbiamo assistito a una velocissima digitalizzazione dei servizi, come si è organizzato il patient centered design?

Il digitale ha sicuramente aiutato la crescita di servizi più efficaci e mirati rispetto alla patient experience. Ma bisogna prestare attenzione ad un tema molto diffuso, non solo in campo medico, che è quello di pensare alla tecnologia come alla panacea di tutti i mali. L’esperienza del paziente ci dice proprio questo: non tutti i pazienti sono uguali, i pazienti vivono reazioni ed emozioni diverse e non esistono soluzioni per tutte le stagioni.

Scegliere una strada rispetto ad altre deve essere il prodotto di una ricerca sui pazienti, condotta a 360 gradi sulla loro vite e solo allora si può pensare di progettare una app, un drone o un semplice sticker da frigo. L’esperienza va sempre ritagliata sulle persone e i loro scenari. Un po’ come quello che stiamo vivendo oggi: il distanziamento sociale non rende semplice esplorare l’universo quotidiano di altre persone, ancora di più se ammalate. Bisogna trovare nuove soluzioni, e qui il digitale ha aperto spazi infiniti per fare ricerca a casa dei pazienti, farcendo girare video o tenendo diari da mobile.

Niente più focus group, ma un ascolto attivo e profondo di persone con le loro storie, anche se necessariamente a distanza. Tutto questo è patient experience design.