Webseries, raccontare la sanità a puntate

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“Quello di cui mia figlia Francesca avrebbe bisogno è rivedersi nelle storie degli altri, per capire che non è sola e che qualcuno come lei ci prova ogni giorno” dice Gabriella, la mamma di una paziente affetta dalla malattia di Fabry. Riconoscersi guardando qualcuno come lei attraverso uno smartphone o qualsiasi dispositivo connesso. Fruire di codici narrativi che non ci abbandonano dall’infanzia: serve una storia e un personaggio con cui immedesimarsi, sono questi gli ingredienti per una webserie. Il successo della serialità, applicato alla capillarità del web, permette di produrre contenuti di successo per tutte le fasce di utenti, anche per quelli che più di altri hanno bisogno di immedesimarsi: i pazienti e i loro caregiver. Il vantaggio delle webseries in ambito sanitario? Senza ombra di dubbio la potenza delle loro storie.

 Webseries, la forza dell’immedesimazione

Puntata dopo puntata creiamo un patto con i personaggi della storia: ci arrabbiamo, tifiamo per loro, ci affezioniamo ma soprattutto finiamo per sentirci un po’ loro. L’immedesimazione è un fattore fondamentale. Nel mondo della salute questo effetto risulta amplificato dalla possibilità di coinvolgere nella serie i diretti destinatari: pazienti reali, come tutte le figure che gravitano loro attorno. Lo sanno bene gli operatori dell’Asl di Napoli 2 nord che hanno creato una webserie di 25 puntate per promuovere gli screening oncologici, ma soprattutto per ridurre la distanza tra medici e pazienti. I Capitani ha come protagonisti 25 medici, uno per puntata, che racconteranno che cosa significa lavorare in un ambiente particolare come quello ospedaliero, quali sono le sfide giornaliere e quanto queste impattano nella loro quotidianità di persone prima che di medici. Azzerare le distanze, umanizzare le figure che molto spesso vengono percepite come totalmente lontane dagli assistiti.

La possibilità di utilizzare la serialità permette infatti di prendere parte all’evoluzione dei personaggi, facilitandone l’immedesimazione.

Come spiega Luca Mastrantonio, saggista e docente di comunicazione e storytelling multimediale all’Università IULM di Milano nel suo saggio Emulazioni pericolose – L’influenza della finzione sulla vita reale, alla forza centrifuga degli intrecci a episodi si contrappone la forza centripeta dei personaggi che hanno una forte carica emotiva e sono in evoluzione, come nei romanzi di formazione. Questo crea un legame così stretto con lo spettatore, che spesso quest’ultimo si ispira alle storie che ha visto nelle series per le proprie scelte di vita. Punto critico nell’ambito della salute, che per questo richiede uno sforzo in più nella direzione artistica: lavorare su una storia reale e smussarne gli angoli ai fini di renderla più scorrevole. La finzione diventa solo un filtro per fruire della realtà.

Il viaggio dell’eroe, dalla diagnosi alla quotidianità

Ogni webserie mette in scena una storia ed ogni storia segue quello che nella comunicazione si chiama il viaggio dell’eroe: il protagonista è chiamato ad uscire dal proprio mondo ordinario per qualche accadimento e inizia ad affrontare delle prove da cui ne esce cambiato. Il viaggio del paziente lo riprende fedelmente: da una situazione iniziale di normalità si finisce tra i corridoi di un ospedale e da lì iniziano le prove da superare, le ricadute che minano il percorso e i mentori, come i caregiver e gli Specialisti, che lo accompagnano in questo susseguirsi di climax e stasi. Come tutte le storie, anche questa ha bisogno di un finale: il cambiamento del paziente ed una nuova consapevolezza.

Come si traduce questo in una webserie sanitaria? In un certo numero di puntate, ognuna focalizzata su certi aspetti, sulle riflessioni e sulle esperienze che informano, responsabilizzano ed educano lo spettatore. È questo l’esempio di #lenostrestorie: la campagna di sensibilizzazione sulle neuropatie disimmuni di CIDP Onlus- otto puntate, otto storie, otto viaggi da raccontare. Elisabetta e la sua piccola Emma sono le protagoniste del primo episodio. “Dopo l’irrompere improvviso di una malattia grave e sconosciuta, proprio durante le festività natalizie, Emma e la madre ritrovano una speranza di cura e la fiducia nel domani”. All’apparenza l’incipit di un perfetto romanzo, è in realtà il racconto di un momento che ha caratterizzato l’esistenza delle due protagoniste, portandole ad affrontare la vita come due vere eroine in un viaggio.

Il successo delle webseries viene guardato con favore anche dall’Industria: può diventare uno strumento utile per fare educazione sulla patologia o su aspetti ad essa correlati. Se per esempio una patologia richiedesse una forte attenzione ad aspetti legati al controllo della dieta, perché non creare una webserie in cui due protagonisti cucinano piatti semplici e raccontano quanto possa essere difficile ma al contempo utile rispettare certe regole alimentari? È il caso di una webserie spagnola pensata per pazienti con malattia renale cronica.

La chiave dello storytelling: la diffusione della rete

Come suggerisce il termine, il canale per la fruizione di queste stories è il web. Le istanze formali della serialità televisiva si convertono a metodi di fruizione tipici della rete: la webserie diventa più diffusa e democratica. Questo tipo di prodotto può diventare uno strumento dell’Associazione pazienti da utilizzare sui propri canali, può essere condivisa sui social e soprattutto è accessibile sempre e in qualsiasi luogo poiché richiede solo una connessione.

#huntingtonstories, per esempio, è una webserie realizzata grazie alla collaborazione di familiari, malati e volontari di Huntington Onlus. Ogni puntata ha un protagonista diverso che racconta la patologia e la vita dopo la diagnosi. La pubblicazione su YouTube ha permesso all’Associazione di ricondividere gli episodi sulla propria pagina Facebook e sul sito, punti di riferimento fondamentali per familiari, caregivers e pazienti alla ricerca di testimonianze.

Il nodo della privacy

Raccontare la propria storia, la patologia e le difficoltà di ogni giorno richiede molto coraggio e tante tutele, soprattutto se il mezzo con cui si sceglie di diffonderle è la rete. In molti casi, infatti, lo storytelling in ambito sanitario si realizza mantenendo l’anonimato dei protagonisti, scegliendo nomi di finzione o omettendo il cognome dei protagonisti della storia. Si può decidere di ricorrere all’uso di attori che, proprio come in altri contesti, studiano i loro personaggi utilizzando un copione che è frutto di attività di user experience sulla comunità di pazienti di interesse.

Esistono molti modi per creare un prodotto di storytelling che racconta di tematiche delicate, intime e personali rispettando la privacy di chi decide di aprirsi e raccontare una parte così importante della propria vita.  In questo modo il prodotto diventa un messaggio capace di veicolare informazioni e valori.

 

Gli influencer sempre più health

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Nano, Health, Micro. La figura dell’influencer si sta  diversificando e connotando sempre di più. Anche nel settore sanitario stanno cominciando a emergere questi catalizzatori di attenzione un tempo sfruttati soprattutto nei settori B2C

Esplorare le possibilità legate alla costruzione di campagne di comunicazione sfruttando la figura degli influencer è un passo importante anche per il settore healthcare.

Secondo quanto riportato da un sondaggio del 2018, infatti, il 78% delle aziende si rivolge a questa figura per completare la propria strategia di comunicazione.

E se l’obiettivo non fosse vendere una borsa griffata, ma sensibilizzare su tematiche legate all’importanza dell’aderenza terapeutica o di un’alimentazione sana? Le nuove figure di professionisti che sul web sfruttano i social network per divulgare informazione a un pubblico sempre più ampio stanno aumentando.

Grazie al contributo di Biagio Oppi, delegato Emilia-Romagna per Ferpi e professore di Comunicazione d’Impresa all’Università di Bologna, cercheremo di scoprire in che modo questi “catalizzatori di attenzione” e influenzatori di pubblici sempre più specifici possono essere utilizzati per aumentare l’awareness del paziente e per incitarlo a condurre stili di vita corretti.

Da anni ormai si sente parlare della figura dell’influencer nelle campagne di comunicazione. A chi ci si riferisce, che caratteristiche dovrebbe rispettare?

Le Relazioni Pubbliche hanno teorizzato lungo tutto il corso del ‘900 il concetto di influenzatore che peraltro esisteva da sempre nelle comunità: nei manuali di relazioni Pubbliche abbiamo studiato come raggiungere gli influenzatori (definiti solitamente opinion leader) che poi avrebbero influenzato (teoria “Two Step Flow of Communication”) le masse o le nicchie di pubblici di nostro interesse. Con la rete e in particolare con i social network, le cose sono cambiate perché i pubblici interagiscono direttamente con gli stessi influencer che quindi hanno una relazione non solo top-down, ma anche di continuo interscambio. Coloro che oggi riescono per autorevolezza e carisma ad emergere e mantenere un ruolo di influenza, sono ancora più rilevanti per le campagne di comunicazione.

I nano influencer, definiti la ‘nuova professione del 2019’, sono diventate le principali figure al centro delle ricerche aziendale per le campagne marketing. Chi sono? Quale è la ragione per cui il marketing ha rivolto il suo interesse verso queste figure?

Il nano influencer è colui che ha un preciso ambito di influenza in una nicchia ben identificabile; probabilmente spesso non è nemmeno conosciuto al di fuori della comunità di interesse di cui è influencer. È molto rilevante (ed interessante quindi per marketing e relazioni pubbliche) perché la sua credibilità è molto elevata e non è basata sulla quantità (banalmente il numero di follower e di interazione con gli stessi) ma sulla qualità (intensità della relazione, livello dei contenuti).

Una curiosità… la prima grande campagna documentata con nano-influencer probabilmente è quella che riguardò i four-minutes men di cui il CPI (il Committee on Public Information) del Governo USA si servì per sostenere le scelte governative a favore della Prima Guerra Mondiale. Si calcola che per convincere gli americani a entrare in guerrra furono coinvolti oltre 75.000 four-minute men, addestrati ad essere estremamente stringati ed essenziali nel fare il loro discorso pro-intervento in cinema, teatri, luoghi pubblici: alcuni calcolano circa 7 milioni e mezzo di “mini-discorsi” che avrebbero coinvolto oltre centinaia di milioni di persone.

Quale è il profilo tipico dell’health influencer?

Un superesperto in grado di parlare con regolarità e competenza di temi sanitari e salute, con una community di follower di nostro interesse. Occorre fare un discorso molto differenziato da Paese a Paese. Ricordo che quando lavorai in Spagna, dal 2015 al 2016, le agenzie di comunicazione e relazioni pubbliche erano in grado di indicarmi almeno una ventina di health influencer molto rilevanti: tanto per capirci persone con pubblici superiori all’audience dei media di settore. In Italia solo da pochissimo si sono affermati alcuni health influencer e pochi sono in grado di raggiungere larghe audience.

Quali sono i principali influencer in questo ambito?

Roberto Burioni in primis, poi Salvo di Grazia (@MedBunker), ma per me sono importanti influencer anche Walter Ricciardi e Mario Melazzini. Tuttavia nell’ambito della salute, conviene davvero identificare le comunità di nostro interesse e quindi ad esempio mi focalizzerei molto sulle associazioni di pazienti e sui profili social che riescono a coagulare attorno a sé gruppi rilevanti di stakeholder nella patologia o sul tema di interesse. È all’interno dei gruppi di pazienti su Facebook che si creano dinamiche di informazione-influenza su temi di salute rilevantissimi; su Instagram oggi viene veicolata un importantissimo numero di informazioni sulla nutrizione – non sempre purtroppo in maniera corretta e responsabile.

Come le aziende farmaceutiche, i caregiver, i fornitori dei servizi per il paziente e i diversi attori del mondo sanitario possono impostare una campagna di comunicazione sfruttando la figura degli influencer?

Per fortuna ci troviamo in un settore fortemente regolato e, almeno in Italia e in Europa, è vietata una comunicazione incontrollata diretta ai pazienti. Gli influencer in sanità devono essere utilizzati per sensibilizzare a stili di vita corretti, per fare awareness sulle patologie e sui sintomi, per migliorare la comprensione di temi generali di interesse come possono essere i vaccini o l’utilizzo degli antibiotici, per dare visibilità a progetti e iniziative di advocacy. La comunicazione rivolta al paziente spetta però alla classe medica nei contesti adeguati. Come aziende dobbiamo impegnarci a restituire autorevolezza e credibilità a scienza e medicina, anche sensibilizzando il pubblico ad un utilizzo consapevole dell’informazione in sanità. In questo senso le aziende, ma anche le associazioni di professionisti della comunicazione, come Ferpi, possono svolgere un ruolo importante.

I nativi digitali e i servizi healthcare

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Come possono i giovani nati con gli smartphone e l’accesso istantaneo alla rete adattare le loro vite frenetiche a un ambiente sanitario fatto di lunghe attese?

L’iter delle numerose telefonate, delle lunghe code per effettuare le prenotazioni, delle liste d’attesa per rivolgersi al proprio medico sono solo alcuni degli elementi che inducono gli under 30 a vivere l’accesso alla sanità con impazienza e insoddisfazione.

A dimostrarlo, infatti, alcuni studi svolti su quelli che vengono definiti i millennials. A differenza di quanto comunemente si può pensare si definiscono tali gli appartenenti alla generazione dei nati tra i primi anni Ottanta e metà degli anni Novanta.

La popolazione che per prima è cresciuta con l’accesso al world wide web, attualmente ha tra i 25 e i 30 anni. Pertanto, una fetta sempre più grande di pazienti e fruitori dei servizi sanitari, presenta le caratteristiche riportate negli studi condotti.

Queste giovani generazioni cercano sempre di più servizi sanitari in grado di soddisfare le loro aspettative in termini di convenienza, efficienza ed efficacia. Richiedono soluzioni che si adattino ai loro ritmi quotidiani e non viceversa.

 

Personalizzare i servizi sulla base di esigenze sempre più smart, fast e digital

 Alcune analisi mostrano che i nativi digitali hanno caratteristiche che li contraddistinguono in modo netto rispetto alle altre generazioni.

Conoscere in maniera approfondita il proprio fruitore per proporgli soluzioni adatte alle sue esigenze prevede un lungo e approfondito lavoro di ricerca. Tramite la User Experience è possibile comprendere i comportamenti degli utenti, gli obiettivi e le loro necessità per progettare servizi e prodotti totalmente centrati su di loro.

Quando si lavora per i millennial, tra i primi aspetti da considerare c’è un certo agio nel raccogliere, curare e condividere dati. Questa fetta di popolazione vive il momento e apprezza l’utilizzo di software, chat e email per pianificare appuntamenti e gestire i propri impegni. Pertanto, i fornitori di servizi sanitari devono superare l’approccio one-size-fits-all alla luce del fatto che i più giovani sono abituati a esperienze sempre più personalizzate che provengono dal mondo del B2C come per esempio quella offerta da Amazon nel mondo dello shopping.

L’approccio sanitario si fa sempre più digitale: come riporta un sondaggio di Accenture infatti, il 51% dei nativi digitali intervistati ha dichiarato di utilizzare un’app mobile o un dispositivo wearable per gestire il proprio stile di vita e più della metà (53%) utilizza assistenti virtuali per monitorare condizioni di salute, farmaci e segni vitali. Pertanto, le relazioni tra medico, paziente, infermieri e associazioni, non possono che essere guardate alla luce di quelle che sono le offerte tecnologiche dell’ultimo decennio.

Come riporta una ricerca presentata nel 2018 dedicata al welfare, un italiano su cinque è pronto ad affermare che in futuro blog, forum e siti internet a cura di professionisti potranno sostituire in buona parte la figura del medico tradizionale. Sempre dai risultati di questa indagine scaturisce che il 66% degli italiani si rivolge al web per cercare informazioni e consigli di autodiagnosi e per capire come affrontare una certa patologia.

Si tratta di un positivo avvicinamento delle persone all’innovazione tecnologica, ma soprattutto all’utilizzo di device e di supporti Internet anche nel mondo sanitario. Tuttavia, il rischio che i pazienti possano incorrere in fake news online è alto, per questo è opportuno che sempre più operatori sanitari e attori del mondo healthcare si attivino per utilizzare la rete in modo professionale aumentando contenuti e supporti di qualità e arginando la disinformazione.

La medicina va in Rete

Sempre più italiani si dicono fiduciosi nei confronti degli effettivi vantaggi che la sanità digitale può apportare. Il 59% di quelli cha hanno partecipato alla ricerca del 2018, dichiara che tra i servizi ritenuti più utili ci sia al primo posto la possibilità di prenotare esami e visite specialistiche online. Per il 48% è fondamentale anche poter consultare referti clinici online e comunicare con il proprio medico direttamente su smartphone e in caso di necessità.

Nonostante sia un esempio tratto dal sistema sanitario svedese, diverso dal quello italiano, la proposta di “Min Doktor” può rappresentare un spunto all’avanguardia da studiare. Si tratta di un centro digitale per l’healthcare che offre visite mediche online che aiutano i pazienti con diagnosi, prescrizioni e referti.

I medici connessi a questo servizio come prima occupazione lavorano negli ospedali e offrono le loro consulenze sulla piattaforma online quando hanno del tempo extra. I pazienti si registrano al sito con il loro BankID e iniziano scegliendo la categoria che rappresenta meglio il loro problema. Ognuna di queste contiene una guida con un numero di domande da compilare circa i sintomi. Per chi vuole c’è la possibilità di allegare anche delle fotografie. Quando “il proprio caso” è completato, viene caricato sul portale e un medico che è online se ne prende carico. Di solito i tempi di attesa possono andare da una mezz’ora a 4 ore e il medico può richiedere un incontro telefonico o video con i pazienti se lo ritiene necessario.

Attualmente questa offerta è attivata solo per chi ha più di 18 anni, ma in Svezia si stanno svolgendo delle ricerche affinché possa essere esteso anche alla fascia più giovane della popolazione dei bambini.

Altro possibile sviluppo dei servizi healthcare riguarda l’utilizzo di contenuti in formato video per avvicinare e coinvolgere i pazienti nei propri processi di cura. I  millennial infatti hanno una probabilità tre volte maggiore rispetto alla generazione precedente di guardare un video sul proprio dispositivo mobile. Offrire loro contenuti audiovisivi personalizzati e interattivi è fondamentale; per questo il mondo sanitario dovrebbe investire nella realizzazione di video tutorial, interviste a esperti o brevi animazioni in grado di aiutare i nativi digitali ad accedere a informazioni di qualità in poco tempo e in un formato facilmente fruibile.

Video tutorial personalizzati per aumentare l’engagement del paziente

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In che modo i contenuti audiovisivi interattivi e personalizzati possono aiutare a migliorare il coinvolgimento del paziente nel suo processo di cura? L’evoluzione nei servizi di comunicazione dell’healthcare è racchiusa in un video tutorial che ti chiama per nome.

L’uomo ricorda il 10% di ciò che vede, il 20% di ciò che ascolta, il 50% di ciò che vede e ascolta e l’80% di ciò che vede, ascolta e fa. Questi i dati riportati dallo studioso Malcom Knoeles. Citando il report proposto da VISTA – participatory VIdeo and social Skills for Training disadvantaged Adults, il materiale audiovisivo, specialmente se unito ad un certo grado di interazione, garantisce le condizioni per una memorizzazione più rapida ed efficace.  Richiamare l’attenzione su elementi importanti, attivare schemi mentali preesistenti, minimizzare il carico cognitivo, supportare il trasferimento di conoscenze e rendere più interessante il percorso di apprendimento sono solo alcune delle funzioni psicologiche che giustificano il ricorso al video nell’educazione degli adulti.

Il video è molto più vicino alla realtà di quanto non sia un testo scritto. Il materiale audiovisivo presenta infatti una pluralità di codici, proprio come avviene nella vita quotidiana. Perché non sfruttare le possibilità offerte dai contenuti video anche nell’ambito dell’healthcare dove engagement del paziente, educazione e miglioramento dell’aderenza terapeutica rappresentano le chiavi del successo per offrire un servizio sanitario in grado di migliorarne davvero la qualità di vita? Offrire prodotti video personalizzati e interattivi, capaci di coinvolgerlo e fornirgli un supporto è uno degli obiettivi della comunicazione in ambito sanitario.

Storytelling, medicina narrativa e tutorial personalizzati

Secondo quanto riportato in un report di FNOPI, emerge che in generale il video tutorial è un mezzo tutt’ora poco utilizzato nell’ambito dell’educazione sanitaria nonostante possa essere uno strumento utile per comunicare informazioni riguardanti la salute, soprattutto per il target meno “sanitariamente” alfabetizzato.

Da qualche anno la produzione video legata al mondo sanitario ha visto emergere diverse forme di audiovisivi legati principalmente a contenuti di storytelling del paziente o di medicina narrativa. Si tratta di strumenti che lavorano di più su una sfera emozionale, che sono in grado di mostrare spaccati di vita dei pazienti e delle loro battaglie quotidiane.

I video, però, possono essere declinati anche in formati più pratici, educativi e informativi in grado di aumentare l’engagement del paziente e renderlo un protagonista attivo del suo percorso di cura. Una produzione audiovisiva di questo tipo può avere una pluralità di funzioni. Al semplice tutorial in formato “how to” si possono affiancare veri e propri prodotti audiovisivi in grado di aiutare il paziente passo dopo passo nelle procedure terapeutiche, offrendo un quadro completo della cura in grado di aumentare la consapevolezza. Con la stessa finalità, si possono creare contenuti video in cui un esperto rispettato e fidato condivide informazioni preziose sotto forma di intervista, simulando un dialogo faccia a faccia con il paziente.

Personalizzazione e interattività  

Le due parole chiave per produrre video facilmente fruibili, che offrano davvero l’informazione giusta al momento giusto e che siano realizzati su misura per ogni tipologia di paziente, sono: personalizzazione e interattività.  Chiamare per nome il fruitore del video, offrirgli uno scenario realisticamente coerente con la sua quotidianità e proporre contenuti prettamente utili al suo scopo, sono degli strumenti già ampiamente conosciuti nei settori B2C, ma che nella sanità rappresentano una sfida molto più complessa. Per produrre contenuti che parlino direttamente ai pazienti è necessario un grosso lavoro a livello scientifico, di raccolta dati e informazioni.

Immaginiamo un paziente che ha a disposizione, su un qualsiasi device, a portata di mano, un tutorial; In formato animato, semplice, personalizzato sulle sue esigenze e sulla sua ruotine, che gli spiega non solo i processi per l’assunzione della terapia, ma anche i canali per contattare i diversi attori del mondo sanitario. Sarebbe un ottimo prodotto da integrare con i servizi di supporto al paziente per aumentare la qualità di vita dello stesso.  Affinché il fruitore dei video possa ricevere i contenuti che predilige, è opportuno rendere le produzioni audiovisive più interattive possibile. Per esempio, le aree interattive che reindirizzano ad approfondimenti specifici, possono essere utili per un duplice motivo: permettono al paziente di ottenere in poco tempo le informazioni di cui ha bisogno senza perdite di tempo e registrano in tempo reale gli interessi del fruitore. In ogni momento decisionale del video, si possono raccogliere dati sugli spettatori. I contenuti interattivi permettono di utilizzare questi dati immediatamente per adattare il video e la strategia in tempo reale migliorando la User Experience nei confronti del servizio.

Dalla teoria alla pratica

Nonostante i video personalizzati e informativi rappresentino un campo ancora poco esplorato, esistono già alcuni contesti sanitari in cui sono stati sperimentati.

Per esempio, Capsuled è una scatola smart utilizzabile per diverse terapie in cui all’interno non è presente solo il farmaco: una parte dello spazio è dedicata a un monitor touchscreen su cui possono essere mostrate diverse tipologie di contenuti audiovisivi e interattivi.

Grazie a tutorial realizzati specificatamente sulla terapia da seguire, il paziente può accedere con semplicità e velocità a informazioni utili per mantenersi aderente.

Inoltre, personalizzare i video sulla base del fruitore che li guarderà è l’aspetto distintivo di alcune delle produzioni realizzate per promuovere i servizi offerti dagli studi clinici. Raccogliere poche e chiare informazioni sui diversi pazienti come età e nome, permette di differenziare i contenuti partendo da un background di base uguale per tutti a cui vengono aggiunti questi dettagli.

 

 

Personas, la chiave empatica nell’healthcare

“Finisco il Liceo quest’anno e il mio sogno è fare l’Erasmus a Parigi, mio papà ci ha vissuto, io non ci sono mai stata”.
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“Avergli passato la malattia è come un chiodo fisso, te fai tutte le tue cose ma poi non è che puoi non pensarci, però io mica voglio farglielo pesare”

Storie, sogni di viaggi, sensi di colpa o di inappropriatezza. Storie di persone, prima che di pazienti e caregiver. Storie che raccontano frammenti di realtà e che sono la sintesi di tante storie, come insegna la User Experience.

Ma che cos’è la UX?

Per User experience design research si intende l’attività che cerca di comprendere i comportamenti degli utenti, gli obiettivi e le loro esigenze per progettare servizi e prodotti totalmente centrati su di loro.

E se sostituissimo la parola user con paziente? Il modello funzionerebbe lo stesso perché il focus rimangono le persone.  Il nuovo approccio volto a disegnare servizi e strumenti di comunicazione sempre più specifici segue una regola principale: come spiega Maria Cristina Lavazza della UX University dobbiamo superare il concetto di utente medio e focalizzarci su un pubblico specifico e profilato.

Sentiamo spesso parlare di storytelling come risultato di campagne di comunicazione e sensibilizzazione, ma se questo diventasse la metodologia di raccolta delle informazioni? Se le esperienze si sostituissero ai dati per la costruzione del journey del paziente? Il risultato sarebbe un sistema di storie funzionali a far emergere i bisogni e le frustrazioni su cui poter costruire soluzioni di valore.

Quindi la ricerca iniziale cosa raccoglie? Comportamenti, opinioni, frustrazioni, bisogni, frasi chiave raccolte con una varietà di strumenti di analisi che possono essere qualitative, esplorative, descrittive, partecipative mescolandosi con dati quantitativi. I risultati di queste analisi sono molteplici: i patient journey maps raccontano la vita del paziente dalla presa di coscienza dei sintomi sino al follow up, ma è possinbile visualizzare i risultati attraverso veri e propri storyboards. Anche i personas nascono da queste analisi e si collocano tra i buyer personas, modelli che partono dai dati utilizzati dal marketing e le protopersonas, profili frutto di un lavoro elaborato con le nostre personalissime lenti.

Il lavoro della UX comprende anche una parte importantissima che da vita a filtri con cui guardare nella maniera più oggettiva la realtà, attraverso la narrazione.  “Maria sta finendo il Liceo e vuole trasferirsi all’estero”. La frase chiave ci permette di entrare in profondità nel mondo di Lucia, che è un personas, per capire come la malattia la vincola nelle sue scelte ma anche nella sua quotidianità, come si compone il suo universo di relazioni, luoghi e azioni. L’approccio permette di trasformare gli insight in possibilità per creare strumenti di comunicazione e servizi ad hoc.

 Allenare l’empatia come strumento per raggiungere i touchpoints

 Riuscire a delineare quelli che sono i personas pazienti, attraverso un’analisi delle informazioni raccolte riguardo ai loro bisogni e comportamenti non è un processo semplice ma permette di focalizzare i servizi sui reali touchpoints.

Come spesso accade ci si limita a segmentare macro gruppi di persone che registrano alcune affinità senza scavare più a fondo, ma soprattutto senza sfruttare un attrezzo fondamentale della user experience, l’empatia.

La capacità di porsi nella situazione di un’altra persona, l’abilità di sentire sulla propria pelle le percezioni dell’altro, per farle proprie e declinarle in una proposta concreta.

Uno strumento che può rivelarsi utile per questo scopo è proprio l’empathy map. Perfetto per raccogliere e gestire le informazioni collezionate attraverso ricerche dirette o indirette sui pazienti, si tratta di un canvas in cui il profilo dell’utente si trova al centro e il lavoro consiste nel cercare di rispondere a 6 domande fondamentali, sulla base dei valori raccolti. Cosa pensa e sente il paziente? Quali sono le opinioni riguardo al servizio offerto che il paziente ascolta da altre persone? Cosa vede? Come si comporta e quale è il suo approccio con la terapia? Che dolori percepisce? Quali sono i suoi valori, che cosa lo rende veramente felice nella vita?

Queste sei proposte di domande rappresentano l’esempio base del modello di mappa empatica che può essere personalizzata anche sulla base delle esigenze.

“I dati recuperati in fase di ricerca con gli utenti possono essere complessi, eterogenei e a volte confusi, il canvas offerto aiuta a trovare un filo conduttore sul quale lavorare in maniera congiunta” come suggerisce Maria Cristina Lavazza nell’Le empathy map del suo blog in cui analizza questo strumento.

Comunicare le Personas

Conoscere e comprendere attraverso la user experience chi sono veramente i pazienti, la loro quotidianità e le loro emozioni, è fondamentale per raccontarli nel modo migliore e comunicare agli stakeholder quali sono le loro esigenze e le loro vere necessità. Andando oltre una presentazione stereotipata tipica di un power point creato per un marchio di cosmesi, nel mondo dei servizi al paziente scendere nel particolare e raccontare l’anima di chi vive tutti i giorni una terapia o è costretto a dei follow up periodici è tanto fondamentale quanto complesso.

Qual è il giusto equilibrio tra informazioni meramente descrittive, comportamentali e di contesto? Le prime sono legate a un racconto informativo, di dato della persona in esame: età, dove vive, dove è nata e cosa fa di professione. Con informazioni comportamentali invece si considerano quelle legate alle abitudini, alle routine, a dei meccanismi psicologici di attivazione di alcuni gesti. Le ultime tipologie di informazioni sono connesse all’utilizzo del servizio proposto.

Come scegliere a cosa dare risalto?

Non esiste una regola scientifica, ogni informazione è veicolo di aspettative e immagini mentali. Nel mondo dell’healthcare, l’aspetto comportamentale del paziente è uno dei requisiti fondamentale per strutturare servizi e prodotti che gli consentano una quotidianità libera da vincoli, ma le informazioni descrittive e di contesto contribuiscono a definire in maniera più specifica il soggetto focus dell’attenzione.

L’approccio legato alla user experience e in particolare al modello dei personas permette di dare forma a soluzioni altamente personalizzate che pongono il paziente al centro. Un primo passo per avvicinare Maria al suo desiderio: quello di vivere a Parigi, proprio come suo padre.